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è uno dei grandi del movimento più vigoroso delle arti visuali ecuadoriane del secolo XX: l'impegno per aggredire temi propri e popolare con forme di forte espressività, rompendo con qualche accademicismo, iniziò nella decade dei trenta, essendo l'irruzione di una generazione con ideali e postulati nuovi in tutti i fronti: in politica, in sociologia, in letteratura e nell'arte dove Kingman stava per compiere, sin dall'inizio, un ruolo decisivo.
Quito era una piccola città di strette e lastricate vie, case con finestre recintate e una vita di clausura. Piccola urbe andina con circa 100.000 abitanti, dove le caffetterie e le cantine erano rifugio di intellettuali e di boemi con acuto senso dell'umore. In questo ambiente, tra cinico e monastico, i Kingman si sarebbero acclimatati lentamente, mentre con i suoi amici alzavano il gomito di fronte a una classe proprietaria terriera piena di pregiudizi morali, di pettegolezzi e di segregazione.
Se si fanno i conti dalla tensione sociale subita ogni giorno, la poderosa presenza di sua madre, l'intenso mondo intellettuale, politico e sociale degli anni 30 e 40, la boema degli anni 40, uno sente Kingman come parte di una lava ardente traboccando dai quattro lati. Soltanto negli anni 70 trova la pace, imparando a vivere isolato, tra tango, milonga e paesaggi rurali. Come in una piccola capsula di cristallo Kingman assimila quanto vissuto e non cessa, mai fatto, di prendere la paletta, fare tra le quinte, giocare con le sue mani, simili a quelle di sua madre y alle di tutti i Kingman. In quel tempo vive già assieme al suo proprio paesaggio, i suoi ricordi, dipingendo febbrilmente, bevendo caffè, fumando e fischiando a duetto con il pappagallino del cortile. In lontananza, sua moglie, Bertha Jijón, segue i suoi riti e le sue abitudine, attenta a tutto, come muro inamovibile, protettrice. |